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Robert Katz’s History of Modern Italy
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C'era una volta l'America... a Roma liberata
le forze americane che avevano bombardato i romani furono
loro stesse bombardate dai fiori dei romani liberati

"Ovunque entrassero le truppe venivano festeggiate, applaudite e ricoperte di fiori. Una pioggia di rose cade sugli uomini, sui cannoni, sui carri armati e sulle jeep." Così Romans greeting GI liberators, June 4, 1944scrisse madre Mary St. Luke, una suora americana a Roma e testimone oculare dell'occupazione nazista. La religiosa aveva iniziato un diario ai primi spari dell'otto settembre del '43, e lo riempiva giorno per giorno fino a quell'indimenticabile prima domenica del giugno 1944 quando entrava la V Armata statunitense del Gen. Mark Clark liberando la Città Eterna. Le sue quotidiane osservazioni sull'incubo dei 270 giorni di Roma sotto terrore e brutalità costituiscono una fonte straordinaria, sempre piena di sorprese che a quanto pare non sono esauribili. Infatti, nel contesto della nota visita del presidente americano Bush per il sessantesimo anniversario del Liberation Day, rileggendo i passaggi scritti da madre Mary proprio quel famoso giorno, si accende una luce nuova sulla politica oscura di un'altra guerra e un'altra capitale liberata, Bagdad.1

Il viaggio a Roma (e poi in Normandia) del presidente Bush era un elemento fondamentale della politica della Casa Bianca che vorrebbe dipingere la guerra in Iraq come un'impresa nobile, ispirata da e in qualche modo uguale alla seconda guerra mondiale. Cioè, nel caso specifico che portava i passeggeri eccellenti sull'Air Force One all'aeroporto di Ciampino, secondo il presidente americano, esisterebbe un'equivalenza morale tra la battaglia per Roma e la battaglia per Bagdad. Invece, il diario di madre Mary ci mostra quant'è lontana l'una dall'altra. Nel 1944, l'esercito che aveva sganciato migliaia di bombe su Roma (e migliaia furono i civili uccisi) era stato bombardato da tutti i fiori di primavera, salutato da due milioni di persone che rimarranno sempre grate come le future generazioni di tutta l'Europa liberata - gratitudine infrangibile ma per quell'America. Per l'altra America, quella del presidente ospitato a Roma sessant'anni dopo, sono in pochi i romani che accetterebbero questa equivalenza tesa a giustificare la guerra in Iraq. E' per celebrare l'America della generazione di madre Mary, che presentiamo il "Time Capsule" che segue (tratto dalle pagine finali di Roma città aperta). — RK

oma sarebbe bruciata? E sarebbe crollato il Colosseo, avverando così l’antica profezia: “Quando cadrà il Colosseo, cadrà Roma / E quando cadrà Roma, finirà il mondo”? Pochi credevano che Hitler avrebbe perdonato la capitale della nazione traditrice, che si era ripromesso di punire, ma certo non mentre la propria capitale stava bruciando e crollando, bombardata quasi ogni notte dalle forze aeree nemiche.

I romani, che avevano saputo del furore hitleriano, credevano a ciò che vedevano e udivano, i boati che facevano tremare le finestre e lampeggiavano nel cielo limpido, o i lontani fuochi che già circondavano la città. “I tedeschi intendevano resistere a oltranza” correvano le voci citate da Elsa Morante, “e comunque prima farebbero saltare tutte quelle famose mine; e pure il papa si preparava a fuggire con la ‘flotta vaticana’ su un aereo blindato, verso l’ignoto.”

In realtà, si diceva che il papa avesse detto al Polizeiführer Wolff, durante la loro udienza privata, che non avrebbe mai lasciato Roma di sua spontanea volontà, aggiungendo: “Il mio posto è qui, e qui lotterò all’ultimo per i comandamenti cristiani”. Ma fino all’ultimo momento Pio XII e il grande apparato di raccolta delle informazioni del Vaticano non ebbero alcun indizio circa l’eventuale intenzione dei tedeschi di difendersi dall’offensiva alleata. La verità è che nessuno sapeva con certezza che cosa avrebbero fatto, neppure gli Alleati, tanto meno la Resistenza, e forse nemmeno i tedeschi stessi. Alla fine, Mussolini espresse il desiderio di vedere Roma rasa al suolo, come le macerie dell’abbazia di Montecassino, mentre solamente il papa alzò la voce per condannare: “Chiunque osasse levare la mano contro Roma sarebbe reo di matricidio dinanzi al mondo civile e nel giudizio eterno di Dio”. Gli altri, belligeranti o alleati, avrebbero di concerto adottato un approccio più pragmatico: Roma andava salvata, a meno che non fosse stato necessario distruggerla.

A Clark poco importava di salvare Roma, quanto di arrivarci. Dopo aver oltrepassato la linea Cesare, diresse l’assalto della V Armata su Valmontone e la Statale 6. Era troppo tardi per cercare di tagliare la strada alla X Armata tedesca, ma non per ordinare ai suoi uomini “di distruggere, scoraggiare, scompigliare, disorganizzare, o quant’altro si può pensare di male, le forze nemiche”; ciò faceva parte della nuova missione: accerchiare Valmontone e svoltare a sinistra sulla Statale 6, uccidendo quanti più tedeschi possibile sulla via per Roma. Concedendogli infine ciò che gli spettava, Alexander spostò l’VIII Armata dal percorso di Clark. Gli inglesi sarebbero passati a est della città. Roma sarebbe stata tutta per l’americano. “L’accordo mi riempì di soddisfazione”, scrisse Clark. “Ora non restava che andare a prendere la città.”

Come tutti, Clark non sapeva se i tedeschi si sarebbero ritirati senza combattere “Non so se i crucchi si difenderanno”, scrisse nel telegramma ai suoi uomini che si preparavano all’assalto finale. “A Roma, consigliamo caldamente di non danneggiare la proprietà pubblica e privata. In città, il fuoco dipende dai crucchi. In caso di opposizione, i comandanti superiori e quelli dei battaglioni hanno la facoltà di schiacciarla con il fuoco e con il movimento.”

Con sua grande costernazione, avrebbe dovuto scansare alcuni tentativi di altri contingenti che, insinuandosi fra le sue linee, volevano precederlo. Ci provò fugacemente perfino un contingente inglese, malgrado gli ordini di stare alla larga, poi fu il turno dei francesi, dei polacchi e addirittura di una manciata di jugoslavi. Ma era cambiata la natura della corsa. La V Armata si stava ormai preoccupando di quale unità americana avrebbe tagliato per prima il traguardo, se il VI Corpo che veniva dai Colli albani o il II Corpo dalla Statale 6, quasi fosse una gara sportiva, anche se la realtà era tremendamente seria. Per Clark, comunque, si trattava di una corsa contro il tempo. Il DDay dell’Operazione Overlord era imminente: benché il generale non fosse al corrente della data esatta, sapeva che era questione di ore e di essere l’unico fra gli ufficiali a immaginare che gli eventi avrebbero potuto sovrapporsi. I tedeschi ripiegavano, ma l’accanita resistenza della loro retroguardia per rallentare l’avanzata degli Alleati stava avendo successo. «Preghi intensamente stanotte», consigliò Clark al suo capo di stato maggiore alla vigilia della spallata finale.

L’azione della retroguardia tedesca per ostruire il passaggio alla V Armata sui Colli albani era a sua volta sotto l’attacco dei partigiani agli ordini di Paolo. Paolo ed Elena stavano agendo secondo il piano che avrebbe dovuto culminare nella tanto discussa insurrezione. Si era alla stretta finale, adesso o mai più. A Palestrina la V Armata era nel cortile di casa, le palle di cannone fischiavano sopra la testa. L’intenzione dei partigiani era scendere dalle colline con gli americani della V Armata e scortarli a Roma. Nel contempo, avrebbero distribuito le armi ai civili lungo la strada, organizzando una clamorosa ribellione. Ancorché tale obiettivo fosse lontano dai desideri di Clark, la Giunta militare si era accordata con il Comando alleato, il quale si era impegnato a fornire le armi. Radio Londra doveva segnalare il momento in cui entrare in azione mandando in onda la frase: “La neve è caduta sui monti”.

Il 3 giugno Kesselring ricevette ordini da Hitler a proposito di Roma, anche se ciò che ordinava il Führer non era mai chiaro. All’uomo che aveva sempre insistito per la lotta a oltranza e aveva già distrutto intere città si attribuisce il merito di aver salvato la capitale. Ma Kesselring, un altro cui piaceva radere al suolo le zone abitate, fatte le debite proporzioni, aveva bisogno di quel merito più del suo incorreggibile capo e, nel momento in cui non rischiava più nulla, avrebbe avocato a sé ogni benemerenza. “Tenni duro nella mia determinazione di tenere la battaglia al di fuori di Roma” scrisse in seguito, lasciando immaginare ai lettori chi avesse tentato di fargli cambiare idea. Uno scenario più plausibile di quello in cui appaiono un Führer sentimentale o un Kesselring cavalleresco prevede che Hitler abbia delegato al suo comandante locale la decisione sul destino di Roma più o meno come fecero gli Alleati, cioè in base alle necessità militari.

La strategia adottata da Kesselring per trovare una via di fuga suffraga questo approccio pragmatico. Il momento in cui decise di partire fu lo stesso in cui si intensificavano le indiscrezioni sulla sua volontà di difendersi. Per tutta la giornata del 3, mentre molti fascisti bruciavano i documenti, raccogliendo i risparmi e scivolando fuori le mura, il feldmaresciallo continuò a spostare uomini e materiali verso il fronte. Dovevano sembrare normali operazioni di occupazione, e anche di divertimento: quella sera il generale Mälzer, su invito di Kesselring, guidò il suo vistoso seguito all’Opera per ascoltare la performance (Un ballo in maschera) del celebre tenore Beniamino Gigli, noto simpatizzante nazista.

Nel frattempo, verso le 22.30, Weizsäcker, facendo la sua parte, si incontrò in Vaticano con i monsignori Montini e Tardini. Circa un’ora prima, i due prelati erano stati informati che il ritiro tedesco non sarebbe stato imminente. Adesso, l’ambasciatore disse loro di aver appena conferito con Kesselring, il cui maggiore desiderio era salvare Roma, e che aveva una sua proposta da sottoporgli. Gli serviva solo l’aiuto del Vaticano affinché acconsentissero anche gli Alleati. Secondo la proposta il centro storico di Roma, con tutti i suoi tesori più preziosi, avrebbe dovuto essere riconosciuto come “città aperta” da entrambi i belligeranti. I prelati si accorsero subito del trucco. Sembrava il tentativo di creare un corridoio da cui la Wehrmacht si sarebbe ritirata con agio, mentre il resto di Roma sarebbe divenuto zona di combattimenti. Esternando una rimostranza a lungo repressa, gli uomini del papa accusarono apertamente i tedeschi di imbrogliare: non rispettavano la città, la occupavano per rifornire il fronte. Erano nove mesi che continuavano le violazioni, dissero; avevano visto che l’artiglieria si spostava di notte nel centro storico. Dubitavano che gli Alleati accettassero di non mettere piede dove i tedeschi erano già passati. Ciò nonostante, avrebbero riferito la proposta di Kesselring per vedere se ci sarebbe stata una controfferta.

Weizsäcker, per nulla turbato dalla reprimenda papale, si attenne al copione e disse che non c’era fretta: Kesselring era calmo, impassibile. Quando l’ambasciatore lasciò il Vaticano era quasi mezzanotte. Nello stesso momento, come notò monsignor Giovannetti nel suo resoconto dell’incontro, vicino a piazza San Pietro, alla confluenza con via della Conciliazione, i carri armati tedeschi rimbombavano sul selciato, ulteriore violazione della città smilitarizzata. Ma, per la prima volta in tutti quei mesi di traffico verso il fronte, c’era una differenza: andavano in direzione opposta.

Elefante! Il nome in codice per il primo giorno della liberazione era stato diffuso da Radio Londra il 2, ma ora era il 4 giugno, duecentosettantesimo giorno di occupazione. Dalle prime ore di quella domenica, il 4, fino all’aurora, Carlo Trabucco, che non riusciva a dormire a causa dei rumori e dell’agitazione, osservava alla luce della luna piena migliaia di automezzi tedeschi convergere e allinearsi verso ponte Milvio per attraversare il Tevere. Proseguirono per la Cassia e la Flaminia, le vie consolari che avevano guidato gli antichi romani verso i trionfi nelle terre in cui non vedevano l’ora di tornare questi soldati, magari sconfitti.

“Gli unni si stanno ritirando!”, registrò la giornalista svizzera de Wyss con entusiasmo poco giornalistico. “Gli unni stanno lasciando la città!” Aveva ascoltato un servizio radiofonico alleato in cui si diceva che erano state sfondate le linee tedesche sui Colli albani e che si era aperta la strada per Roma. “Corsi di sopra, sul terrazzo, da cui, con il binocolo, godevo di una vista eccellente. Non c’è dubbio, si stanno ritirando! Il mio cuore batte. Finalmente se ne vanno! Si stanno ritirando!”

In Vaticano, monsignor Giovannetti non perdeva d’occhio quel che succedeva fuori:

I soldati si ritirano con ordine, ma appaiono stanchi e avviliti [...] Hanno requisito tutti i mezzi possibili: automobili private, carrozzelle da piazza con il vetturino, perfino carri con i buoi. Una sequenza interminabile. Alcuni marciano con lo zaino tremendamente affardellato, armi in mano. La popolazione guarda e non dice nulla. Qualche ragazzo offre da bere. Soldati che si sono battuti valorosamente per nove mesi a sud di Roma in condizioni di inferiorità [...] passano segnati dalla tremenda lotta. Quanti di essi credono ancora nella promessa hitleriana del Reich millenario?

Elsa Morante avrebbe scritto di una fila interminabile di camion da piazza Venezia a via del Corso: “Una processione sterminata di camioni stracarichi di soldati germani, tutti neri di fuliggine e sporchi di sangue. La gente li guardava e non diceva niente. Loro non guardavano nessuno”.

De Wyss osò per la prima volta tirar fuori la sua macchina fotografica e scattò alcune foto:

Finalmente vedevo l’esercito tedesco, sconfitto, che si ritirava. C’erano camion e vagoni talmente carichi che i soldati si addossavano a grappoli; carri con soldati, militi a cavallo, veicoli agricoli stipati di uomini stanchi morti. Poi c’erano i soldati a cavallo dei buoi e infine la fila infinita di quelli a piedi. Avevano la faccia spenta dalla fatica, gli occhi fuori dalle orbite, le bocche spalancate, zoppicavano a piedi nudi, trascinandosi i fucili. Ricordo lo stesso esercito quando entrò in Francia: sprezzante, onnipotente, calpestava i deboli. Ricordo di essere stata gettata in un fosso da loro. Adesso vedevo la loro sconfitta. Strinsi le labbra.

Guardando il centro storico la suore americana madre Mary, a differenza di monsignor Giovannetti, vide confusione; “gli unni sconfitti stavano fuggendo in disordine”, e poi:

Passavano i tedeschi, con lo sguardo allucinato, non rasati, trasandati, a piedi, su macchine rubate, su veicoli trainati da cavalli, perfino su carri appartenenti agli spazzini. Nessun tentativo di formazione militare. Alcuni trascinavano piccole ambulanze con i feriti sopra. Se ne andavano, taluni con le pistole in mano, altri con i fucili puntati in alto [...] Lo scorso settembre erano arrivati con i mitragliatori puntati contro i romani, ma ora era diverso. Erano spaventati. Avevano una chiara idea della forza del movimento clandestino, del potere dei patrioti armati e della loro determinazione ad agire, se e quando fosse stato necessario.

In questo giorno di vittoria, Paolo ed Elena si erano spogliati dei loro noms de guerre, una pelle abbandonata al sole, per riemergere come Carla Capponi e Rosario Sasà Bentivegna, benché fossero cambiati per sempre. La nuova assegnazione (controllare la ritirata tedesca) li aveva riportati fra le macerie di San Lorenzo, dove l’estate precedente erano cadute le bombe dei venti aerei amici. Ora la coppia portava il bracciale dei partigiani romani, il verde, bianco e rosso della bandiera italiana, con la circolare dicitura CLN. Si trovavano fra i tanti partigiani, tutti armati, in prima fila, davanti alla gente che, lungo la strada, guardava la ritirata tedesca. Non ci sarebbe stata insurrezione, ma il giorno prima era stato dato un nuovo ruolo ai partigiani, e gli ordini erano chiari.

Nonostante i dissidi intestini e la cocente delusione per l’insurrezione mancata, il braccio militare della Resistenza era in quel momento la forza più potente, disciplinata e pronta alla battaglia, tanto più di fronte all’avvilita ritirata della Wehrmacht. Accettando la responsabilità di fare da garanti per un pacifico ripiegamento tedesco, i partigiani avrebbero de facto preso possesso della città, occupando il vuoto fra la partenza tedesca e l’arrivo degli Alleati. La situazione tanto temuta dalla destra politica, e soprattutto dal papa (Roma nelle mani degli “irresponsabili”), stava per verificarsi, an- che se avrebbe avuto vita breve (due ore), una paura colossale che si riduceva a una puntura di spillo, più piacevole che dolorosa.

Per quanto concerne gli elementi “responsabili”, esisteva già un vuoto di potere fin dall’inizio di quella giornata. Quanto a Mälzer, quella mattina era ancora a Roma, benché innocuo, essendo stato visto da uno degli agenti di Tompkins, “ubriaco fradicio, [mentre] blaterava in pessimo francese, era in stato di depressione”. Dollmann, com’era nel suo stile, fece una malinconica passeggiata per la città salutando le sue opere preferite (Bernini e Bramante), poi, su ordine di Kesselring, partì per Firenze. Kappler stava ancora bruciando i documenti di via Tasso, ma Priebke, che aveva già spedito la moglie e i due figli, nati a Roma, verso la nuova destinazione, il quartier generale delle SS a Verona, viaggiava solo nella sua FIAT a due posti. La prima fermata era l’ultimo appuntamento con la diva del cinema fascista, Laura Nucci. Molto tempo dopo, da vecchio imprigionato a Roma in attesa del processo, avrebbe rievocato quell’addio dal gusto agrodolce:

Provano quel giorno tanta tristezza. Eravamo venuti a Roma da alleati, ripartivamo sconfitti con le truppe americane alle calcagna. Nelle prime ore del mattino mi diressi con la mia Topolino in via Ruggero Fauro, una strada stretta piuttosto tranquilla nel quartiere Parioli di Roma. Volevo salutare Laura e vederla per l’ultima volta. Mentre guidavo mi ricordavo di tutte le volte in cui avevo percorso quella strada: sempre di sera e in abiti civili. Avevo portato con me la mia fedele Mauser, infilata nello stivale. Ora mi presentavo a lei con la mia uniforme e armato fino ai denti [...] I saluti furono molto brevi. Dovevamo andare via da Roma alla svelta. Scesi le scale senza voltarmi. Ma Laura mi rincorse fino alla macchina dicendomi: «Aspettami, aspettami, vengo con te...». Quasi mi implorava. Girai la macchina e andai a raggiungere i miei compagni.

Più o meno alla stessa ora la banda Koch fuggiva in una colonna di automobili dirette a Milano e verso ulteriori infamie, mentre il questore Caruso, pure lui insieme a una scorta di tirapiedi, aveva preso la direzione contraria. Sgommando via su una potente Alfa Romeo con una piccola fortuna, fra cui una misteriosa collezione di gioielli femminili, finì la corsa appena fuori Roma. Fu colpito dalle mitragliatrici alleate vicino al lago di Bracciano, uscì di strada e si schiantò contro un albero. Lo sbadato capo della polizia, gravemente ferito, fu portato di corsa in un ospedale in territorio ancora tedesco, ma quest’ultimo colpo di fortuna sarebbe svanito pochi giorni dopo, quando i partigiani locali lo consegnarono agli Alleati.

Poco prima di mezzogiorno di quella domenica Kappler, passando per l’ultima volta dall’atrio, sotto il ritratto a grandezza naturale del Führer, lasciò finalmente via Tasso. Soli e abbandonati, i prigionieri sopravvissuti rimasero chiusi nelle celle, a digiuno e inconsapevoli del loro destino nonché quello dei compagni. Con l’inizio del ripiegamento generale degli occupanti, quella sera del 3, quattordici prigionieri di via Tasso, con le mani legate dietro la schiena, furono messi su una camionetta diretta a nord. Erano una strana mescolanza di uomini che comprendeva il sindacalista Bruno Buozzi e tre spie italiane dell’OSS. Un altro italiano dei servizi segreti americani, Arrigo Paladini, uomo di Tompkins, figurava tra quelli caricati su un altro camion, più grande, stipato con un totale di trenta prigio- nieri. Prima partì la camionetta con Buozzi e gli altri, che si confuse nella processione lungo la Cassia, e che a pochi chilometri fuori Roma si fermò nei pressi del sobborgo de La Storta. I prigionieri furono fatti scendere dietro gli alberi, costretti a inginocchiarsi e poi uccisi uno a uno con una pallottola nel collo, a ricordo del metodo usato da Kappler per il massacro delle Ardeatine.

Nel secondo camion, Paladini era in compagnia dei gappisti traditi da Guglielmo Blasi, compresi Spartaco, Raoul e Duilio, tutti condannati a morte e fisicamente stravolti. Questo camion, però, forse a causa di un guasto o di un sabotaggio, non era riuscito a partire, per cui gli uomini erano tornati in cella, chiusi ma incustoditi, miracolosamente risparmiati, a un passo dalla libertà (bastava un giro di chiave o un colpo d’ariete). Non dovettero aspettare a lungo: furono liberati dopo poche ore dalla folla romana, ubriaca di liberazione.

La strategia finale di Kesselring (resistenza della retroguardia per rallentare l’avanzata degli Alleati fino a che le sue truppe in ritirata non fossero state al sicuro) aveva soffocato per tutto il giorno il traffico a senso unico nelle strade di Roma. La corsa per il bottino si sviluppava lungo le Statali 6 e 7, e per altre arterie, salutata dalla gente ai lati delle strade, anche se a volte si giungeva a un punto morto. Eric Sevareid, che stava preparando un servizio dal vivo sul grande evento da trasmettere in patria, riferì poi la scena dalla posizione in cui si trovava a mezzogiorno:

Roma era davanti a noi, ma in realtà l’intera città era oscurata dal fumo e dalla foschia. Vicino, rombavano i cannoni, e da qualche posto della città proveniva il sordo rumore delle esplosioni [...] C’era una strana sensazione nell’aria, un’atmosfera mista di battaglia e vacanza. Gli inviati, seduti, battevano sulle loro macchine da scrivere appoggiate sulle ginocchia [...] La gente si affacciava a tutte le finestre e si raccoglieva davanti a ogni porta. Le ragazze e i bambini lanciavano fiori alle due file di soldati americani che avanzavano lentamente, e ormai sulle torrette dei nostri carri armati campeggiavano i bouquet. Mentre battevo a macchina, mi si avvicinarono due donne attempate. Volevano assolutamente stringermi la mano. Una mi allungava un frugoletto biondo per farmelo baciare [...] Roma stava cadendo e tutto il mondo aspettava, osservava. Era un giorno miracoloso, definitivo, una giornata storica.

Su ordine di Clark, si era formato un certo numero di unità operative che dovevano fungere da apripista, a loro volta guidate dai reparti di avanguardia. Se incontravano la resistenza tedesca su una strada si spostavano, ma ciò non faceva altro che aumentare la confusione. A capo della squadriglia, perlomeno quasi sempre, vi era la Prima forza di servizio speciale del generale Robert Frederick, i Diavoli Neri di Anzio o, come li avevano ribattezzati i tedeschi, la Brigata del Diavolo. A loro era stata affidata la missione di occupare i ponti per assicurare l’inseguimento del nemico in ritirata. Una delle pattuglie d’avanguardia di Frederick, sessanta uomini con diciotto jeep, era effettivamente entrata a Roma fin dal 3. Attaccati dai cecchini e dalle postazioni delle mitragliatrici, erano riusciti comunque a raggiungere Cinecittà, sulla Tuscolana, dove avevano passato la notte, per essere ricacciati la mattina dopo oltre i confini urbani in seguito a un tentativo fallito di avanzare ancora.

Oltre agli sporadici scontri con il nemico, vi era il pericolo del fuoco amico, sebbene piuttosto scarso. In un teso confronto, l’avanzata britannica sulla Statale 6 per soffiare il primo posto agli americani venne bloccata da un imbottigliamento di traffico creato da un americano dai rapidi riflessi mentali. Inoltre, scoppiarono diversi scontri a fuoco fra la V Armata e altre unità alleate, nonché una “piccola scaramuccia”, come disse il comandante americano, fra i suoi uomini e la Forza di Frederick, “dovuta a un’incomprensione fra le due unità”.

Di conseguenza, uno o l’altro dei vari contingenti della V Armata avrebbe reclamato di essere stato il primo a entrare in città. L’onore, benché ufficioso, sarebbe spettato alla Prima forza di sevizio speciale di Frederick, che entrò nel cuore di Roma a prima sera. Uno dei suoi uomini, Thomas Garcia, si sarebbe inoltre guadagnato la fama eterna delle citazioni per aver detto, vedendo il Colosseo per la prima volta: “Santo Cielo, hanno bombardato anche questo!”.

Ma il pomeriggio del 4 il generale Frederick, come tutto il resto, era bloccato sulla Statale 6. Una jeep che trasportava Clark e il co- mandante del II Corpo, generale Geoffrey Keyes, lo affiancò e si fermò. Clark, appena arrivato dai Colli albani, essendo il bottino a portata di mano, voleva sapere che cosa stesse ritardando l’avanzata. Poi si verificò la piacevole distrazione del fotografo al seguito di Clark che attirò l’attenzione sul segnale blu con i montanti catarifrangenti. C’era scritto ROMA. In effetti, si trattava della segnaletica stradale che delimitava il confine comunale sulla Casilina, certo approssimato, ma chi lo leggeva non poteva dirsi ancora arrivato, a differenza di chi vedeva il bianco del retro. In ogni caso, incuteva rispetto e, in un lampo, se così si può dire, fu scattata la foto. Allora Clark si rivolse a Frederick ed esclamò: Roma nelle mani americane
«Caspita Bob,mi piacerebbe avere quel segnale nel mio posto di comando».
Lo stesso Frederick si adoperò per recuperare quello che era ormai un articolo da museo, ma in quel momento un franco tiratore tedesco, con tre generali nel mirino, premette il grilletto. Il primo proiettile sfondò il segnale e il resto della raffica passò sopra le loro teste mentre si tuffavano in un fosso. La sparatoria continuò per parecchi minuti; i generali strisciarono a quattro zampe per mettersi in salvo e Frederick trovò infine la risposta all’insistente domanda di Clark: «Ecco che cosa trattiene la Prima forza di servizio speciale».

Clark li lasciò, non senza prima aver ribadito la sua sollecitazione: «Dobbiamo penetrare lì dentro», mentre Frederick chiedeva a Keyes perché Clark fosse tanto impaziente: «Be’» replicò Keyes, «dopodomani la Francia sarà invasa dall’Inghilterra e dobbiamo far pubblicare sui giornali la conquista di Roma prima di allora».

All’interno della città un ordine impartito non si sa da chi aveva stabilito il coprifuoco per le diciotto. Pochi romani vi davano retta, ma a quell’ora, sebbene il sole fosse ancora alto nel cielo di ponente, le strade erano misteriosamente vuote. Il ripiegamento tedesco si era assottigliato negli ultimi sbandati, fra cui i cecchini e i mitraglieri che rinunciavano, con esasperante lentezza, a combattere. Carla e Sasà, insieme ad altri compagni, erano stati di servizio a porta San Lorenzo, fuori piazzale Tiburtino, con l’incarico di impedire i colpi di coda del nemico. Ma i tedeschi se n’erano già andati, senza incidenti, e gli uomini, le donne e i bambini del quartiere uscivano tutti sulla porta di casa, lungo le mura del cimitero del Verano e fuori della basilica di San Lorenzo, in attesa degli americani.

Quando infine un automezzo americano entrò nel piazzale Tiburtino la gente quasi non si mosse, guardava con sospetto, non essendo sicura se i nuovi arrivati fossero amici o nemici. Sasà e altri partigiani andarono loro incontro. I soldati avevano gli elmetti mimetizzati e le divise coperte da uno strato di polvere che nascondeva i contrassegni. Sembravano stravolti dalla fatica, ricorda Sasà, e alquanto diffidenti essi stessi sotto lo sguardo della folla:

Si cercò di scambiare qualche parola con loro, il loro inglese-americano non era familiare neppure a quelli di noi che conoscevano l’inglese per averlo studiato a scuola, e il loro “yes”, che veniva pronunciato “jea” ricordava troppo lo strascicato “ja” dei nazisti, per sciogliere definitivamente il gelo della paura. Poi vennero fuori le sigarette – le Camel – e non ci furono dubbi, e la gente corse impazzita intorno, nelle strade, a urlare che erano arrivati gli americani.

Nel tardo pomeriggio era andata via l’elettricità e quando fece notte la luna era velata di foschia; sebbene le celebrazioni continuassero, talora nel buio più totale, fu solo all’alba che la città esplose nella pienezza della sua gioia.

Lunedì, il 5 giugno 1944, l’esercito che aveva sganciato migliaia di bombe su Roma sarebbe stato bombardato da tutti i fiori di primavera, salutato da due milioni di persone che ricominciavano a vivere.

“Ovunque entrassero” scrisse madre Mary “le truppe venivano festeggiate, applaudite e ricoperte di fiori. Una pioggia di rose cadde sugli uomini, sui cannoni, sui carri armati e sulle jeep.” La prima volta che vide i liberatori, dopo una notte in ascolto dei clamori e degli applausi, nel buio, al di là del convento, fu di prima mattina, “drammatica nella sua semplicità”.

Aprendo la finestra verso le sei, vidi una piccola jeep con quattro soldati americani che procedeva in strada lentamente, senza far rumore. Non c’era nessun altro nei dintorni. Sembrava una cosa solitaria, eppure così significativa nella fredda immobilità dell’alba. Per pochi secondi fu tutta per me. Era così piccola, eppure tanto sicura; uno schizzo in una pagina di storia; un punto fermo alla fine di un capitolo di paura e oppressione.

A San Lorenzo, Sasà si svegliò all’alba di fianco a Carla e uscì che lei ancora dormiva. C’era la minaccia dei sabotaggi e dovevano tuttora eseguire gli ordini, ma gli era stata assegnata anche la missione di guidare una squadra di partigiani per sorprendere e arrestare un certo numero di fascisti che erano notoriamente nel distretto. Tuttavia, ancor prima di passare dal primo nome sulla lista si era accorto che gli avevano assegnato un incarico per eccesso di zelo. Si trattava di povera gente, vittime dell’occupazione nazista e della guerra come tutti gli abitanti di San Lorenzo, famiglie che si piegavano, tremavano e imploravano pietà alla vista delle bande armate partigiane, pagando per il “fascismo” che avevano abbracciato per paura. Dopo tre visite di questo tipo, Sasà rinunciò e tornò al posto di comando. Se vi era altro lavoro da fare per i partigiani nella città liberata, disse, avrebbe dovuto essere più dignitoso di qualcosa che aveva il cattivo odore del passato che avevano tanto combattuto. Ma in quella giornata il lavoro non era in cima ai suoi pensieri.

La guerra era finita da un’ora all’altra. D’improvviso Roma, fin allora deserta, si era riempita di folla. Gli uomini che erano stati nascosti per tanti mesi, erano venuti fuori e affollavano le strade. Parlavano, discutevano animati, quasi felici.

Dal levar del sole in poi ci fu la grande entrata, come la definì Sevareid, il grosso della V Armata di Clark che prendeva possesso di Roma. “Molte grandi città sono state liberate dopo Roma” scrisse l’linviato americano, “e lo spettacolo è quasi sempre stato uguale. Ma per me quest’entrata era una cosa nuova e mi accorsi di dover trattenere le emozioni.”

Tutti erano in strada, migliaia di migliaia dalle zone periferiche che camminavano verso il centro città. Un diffuso mormorio di voci umane inondava ogni luogo e saliva in un gioioso crescendo a ogni grande viale che incrociavamo. C’era felicità negli occhi di tutti e di tanto in tanto, come quando un cecchino tedesco con la mantellina imbrattata di verde venne portato via dal Colosseo, i ricordi facevano stravolgere i visi, perfino i bambini emettevano urla selvagge e i pugni che avevano stretto i mazzi di fiori si serravano di nuovo per la rabbia. Piazza Venezia era strapiena di una folla enorme e la nostra jeep procedeva a passo di lumaca, mentre i fiori ci piovevano in testa, gli uomini ci afferravano le mani e ce le baciavano, le donne anziane scoppiavano in lacrime, le ragazze e i ragazzi volevano salire di fianco a noi. Cercavo di ricordare che fino a ieri erano stati nostri nemici, che erano contenti perché la guerra era finita e perché avevamo cacciato i tedeschi, che i non combattenti come me non avevano diritto all’adulazione. Ma invano. Mi sentivo meravigliosamente bene, generoso e importante. Ero un rappresentante della forza, della decenza e del successo.

Era ancora mattina presto quando Clark fece il suo ingresso trionfale a Roma. Tutti i piani più o meno elaborati per consegnare la città agli americani scomparvero davanti alla situazione urbana, dal momento che il capo della V Armata, come ogni conquistatore dai tempi di Annibale, aveva solo bisogno di allungare la mano per prendere il bottino. Nel quinto decennio del XX secolo era arrivato il giorno in cui tutto ciò che si doveva fare per proclamare la realtà era, come disse il generale Keyes, “metterla sui giornali”. Tuttavia, una cosa era marciare sulla città un’altra sapere dove andare, a Roma. Clark non lo sapeva di sicuro, e lo disse apertamente, ma afferrò la logica del suggerimento di un suo generale, che predispose un incontro con i comandanti delle truppe nel “municipio”. La scelta non poteva essere migliore, dato che il municipio di questa città era il venerato Campidoglio, sito dell’antico Senato del popolo romano, in cima al colle capitolino. Qui, a “capo del mondo”, come si diceva una volta, Bruto aveva tenuto la sua allocuzione ai romani dopo l’uccisione di Cesare.

Senza nessuno sfoggio, Clark e i suoi ufficiali entrarono nella città in giubilo su un piccolo convoglio di jeep, trasportati corpo e anima. Non riconoscibili in mezzo all’infinita parata, essi si attarda- rono in un dedalo di strade secondarie, “allungando il collo per dare un’occhiata ai monumenti”, scrisse Clark, visibilmente divertito, specie quando persero l’orientamento; siccome i generali sono gli ultimi a chiedere informazioni, si ritrovarono in piazza San Pietro, dove si fermarono a bocca aperta.

Sorpreso nell’atto, Clark si sentì dire «Benvenuto a Roma» in inglese, e quando si guardò attorno vide un religioso, che gli chiese: «Posso aiutarvi in qualche modo?».

«In effetti» replicò Clark «volevamo andare al Campidoglio.» Il religioso fu felice di indicare loro la strada giusta, li ringraziò per aver salvato Roma e si presentò, dicendo di essere originario di Detroit. «È un grande piacere» aggiunse Clark, «il mio nome è Clark.»

Il religioso sorrise e riprese il suo cammino, ma dopo due o tre passi si voltò ed esclamò: «Il generale Clark?».

Nel frattempo si era radunata una folla di romani, altrettanto rispettosa del religioso, e un ragazzo in bicicletta si offrì di accompagnarli al Campidoglio. “Lo fece” raccontò poi Clark “pedalando davanti alla nostra jeep e urlando a tutti quelli che erano in strada di farsi da parte perché il generale Clark cercava di raggiungere il Campidoglio; [...] quando giungemmo davanti al balcone da cui si affacciava Mussolini per tenere i suoi discorsi più importanti, la strada era bloccata da gente curiosa e festante.”34

Avvisati dal capo delle pubbliche relazioni che il generale avrebbe tenuto una conferenza stampa, tutti i corrispondenti di guerra si precipitarono al Campidoglio. Trovarono Clark che esponeva il suo “profilo migliore” a un gruppo di fotografi e cineoperatori, ricevendo i suoi comandanti, fra cui Truscott, Keyes e il maresciallo Juin, stringendo loro cordialmente la mano nella piazza sovrastante la città.

«Signori» disse il generale rivolto agli inviati, «non avevo previsto di tenere una conferenza stampa in questo luogo, mi ero limitato a convocare i comandanti dei corpi d’armata per analizzare la situazione. Tuttavia, sarò felice di rispondere ai vostri quesiti. Questa è una grande giornata per la V Armata, per le sue truppe francesi, britanniche e americane, che hanno reso possibile la vittoria.»36 Pronunciando le cose più ovvie, Clark aveva omesso qualsiasi riferimento ad Alexander e all’VIII Armata inglese, cosa per cui si sarebbe esposto al ridicolo per sempre. Fra i cronisti presenti, l’implacabile Eric Sevareid fu il più aspro: “Quella era l’immortale annotazione del moderno conquistatore di Roma. Non era, apparentemente, una grande giornata per il mondo, per gli Alleati e tutte le persone sofferenti, che non vedevano l’ora di ritrovare la pace.”

Nella Roma liberata di quel giorno nessuno più di Pio XII era stato alleggerito di un peso. Al suono rallegrante delle campane che ripulivano l’aria romana dal rumore lugubre delle bombe e dei mortai che si durava fatica a scordare, decine di migliaia di romani si stavano raccogliendo in piazza San Pietro per le cinque di quel pomeriggio. Da mezzogiorno gruppi di ragazze e ragazzi avevano percorso in camionetta la città, ripetendo con gli altoparlanti il messaggio scritto in fretta sui volantini, distribuiti porta a porta e appiccicati ai muri: “Alle sei, tutti a San Pietro per ringraziare il papa”.

Quando arrivò madre Mary, un po’ prima delle sei, la piazza era piena e, secondo i suoi calcoli, ciò significava che c’erano non meno di centomila anime. Come al solito, rievocò la scena con pochi tratti essenziali:

Il sole pomeridiano colpiva obliquamente il tetto della basilica, versando torrenti di luce dorata sul mare di colori sottostante. Con le bandiere e i vessilli, sembrava un’aiuola di erbe in pieno rigoglio. I soldati con le uniformi da combattimento formavano lo sfondo grigioverde.

Sebbene avessero la faccia stanca e fossero tutti impolverati, i GI nella piazza osservavano la scena con infinita meraviglia. “Non sapevo che esistesse una cosa tanto bella”, avrebbe commentato un fante al giornalista di Stars and Stripes.

Altrettanto estasiato era Carlo Trabucco, che avrebbe desiderato perversamente che l’innominabile “uomo di piazza Venezia”, il Duce, potesse vedere che cosa fosse il vero entusiasmo dei romani, non quello montato dai suoi scagnozzi: secondo lui, la folla in San Pietro era la dimostrazione di ciò che le persone di ogni tendenza politica sentivano per il pontefice. “Numerose le bandiere rosse dei comunisti” scrisse, “numerosi i socialisti, senza numero gli aderenti alla democrazia cristiana, immensa la folla anonima.”42 E quando il papa apparve sul balcone centrale vestito di bianco (“il Bianco Padre”, lo chiamava Trabucco), l’acclamazione della moltitudine salì più volte al cielo mentre parlava.

In uno dei suoi discorsi più brevi e semplici, il papa disse che i timori passati erano stati rimpiazzati dalle odierne speranze, perché “per misericordia divina ispirante ad ambedue le parti belligeranti intenti di pace e non di afflizione, l’Eterna Città è stata preservata da incommensurabile pericolo”. Ringraziò Dio, la Trinità e Maria, Madre di Dio, per aver risparmiato i romani, e si inchinò davanti agli apostoli Pietro e Paolo per aver difeso la città, di cui anche loro avevano impregnato il terreno con il sangue e con il sudore del loro martirio. Infine, fece appello ai romani affinché dimenticassero la sete di vendetta e lottassero per l’amore fraterno. “Sursum corda! In alto i cuori!”, esclamò. Poi benedisse la folla inginocchiata e lasciò il balcone, mentre la gente lo acclamava ancora.

Fra gli americani nella piazza perfino Sevareid, un duro incallito, non poté fare a meno di commuoversi. Benché sostenesse ancora di essere libero da ogni sentimento di deferenza per il Vaticano, che riteneva “filofascista”, la pompa e lo splendore, il senso del teatro e dello spettacolo, lo turbarono profondamente. Nel pontefice che ringraziava solo la sua “parte”, lodando parimenti sia i tedeschi sia gli Alleati, il cronista non vedeva alcuna analogia con gli autoelogi di Clark. Ma a parte il senso dello spettacolo, Sevareid era impressionato dal “genio politico del papa”. In effetti, Pio XII era riuscito a trovare il giusto amalgama fra le due qualità. “Di conseguenza” sembrava a Sevareid, “egli si prese il merito per il fatto che la città era stata risparmiata.”

Il Vaticano avrebbe definito questo papa defensor civitatis, il difensore della città nel periodo della terribile occupazione nazista, corona di gloria che si sarebbe rivelata troppo pesante da portare.

Sasà tornò all’amore e al calore familiare quella sera, ma non come aveva immaginato. La gioia dei genitori era fuori di dubbio, però il giovane non poté neppure raccontare l’inizio di tutta la storia. Infatti poco dopo dovette uscire di nuovo per ricongiungersi con i compagni dell’Unità e con Carla.

Lei era arrivata nell’androne del suo palazzo e aveva visto la madre e il fratello che stavano uscendo. Si era fermata davanti a loro, che però avevano continuato a camminare, senza notare la smilza figura di donna, quasi superandola del tutto, quando suo fratello gridò: «Carla!». Si abbracciarono, si baciarono e piansero. «Sei pelle e ossa, tesoro», esclamò la madre. Il cuore le batteva forte, ricorda Carla.

Tutta la notte Carla e Sasà lavorarono al giornale, aiutando gli operai per far uscire l’edizione del giorno dopo, ammiccando fra un gesto e l’altro, come ai tempi della clandestinità. Qui, fra i compagni feriti, alcuni provenienti da via Tasso o da Regina Coeli, altri che non vedevano da mesi, sopravvissuti a questa o quella esperienza straziante, c’era un’aria di festa, il gran bisogno di rimettersi in pari, forse perfino il gusto della felicità che non trovavano altrove.

“Nel clima di ritrovata libertà” ricorda Sasà, “ci sentivamo più sereni e distesi. Comunque eravamo già preparati ad affrontare le altre prove: la guerra continuava e sapevamo ancora bene quale sarebbe stato il nostro nuovo fronte di lotta.”45 Scrisse Carla:

Sapevo che cosa ci aspettava, ancora una vita difficile, forse ancora miseria, eppure c’era finalmente una certezza: l’avvenire non era un muro contro cui imprecare, una prigione dello spirito e della carne, ma una finestra che, finalmente aperta, spaziava sul mondo, e tutto era in quello spazio immenso ad attendere che ricominciassimo a volare. Come nei sogni di bambina, quando volavo sopra il giardino, sopra i cavoli dell’orto, sopra le rose e i glicini.

Quella sera Roosevelt diffuse un messaggio radiofonico. I titoli a caratteri cubitali di tutti i giornali del mondo avevano già raccontato la storia, ma gli accenti di trionfo nella sua voce non erano per questo diminuiti mentre dichiarava la conquista della prima capitale dell’Asse, presagio della sicura vittoria finale. Tuttavia, occorreva ancora combattere duramente. “Prima uno e poi l’altro” disse, puntando su Berlino e su Tokyo. Nella capitale caduta, era già mattina quando parlava il presidente americano, la mattina in cui tutti gli occhi (e i titoli dei giornali) fissarono il bersaglio con lui: era il D-Day sulle spiagge di Normandia. Le forze di Eisenhower avevano attraversato la Manica, dando avvio alle vera e propria invasione della Fortezza Europa. Sul fronte meridionale, il grosso degli eserciti alleati stava già impegnando i tedeschi a nord di Roma.

Seppur sotto l’amministrazione temporanea dei militi alleati, la Roma liberata era stata restituita ai romani. Mancavano ancora alcuni tasselli, soprattutto le persone (le vittime, deportate o elimina- te), ma il più era rimasto intatto. Il Colosseo non era caduto, era stata salvaguardata la civiltà, poiché si era visto che, messa alla prova, Roma aveva di nuovo dimostrato di essere eterna. Ma le ferite erano profonde e ci sarebbe voluto molto prima che un poeta di San Lorenzo, Giulio Farnesi, scrivendo in romanesco nel posto in cui tutto era iniziato, potesse comporre questa canzone:

Nel millenovecentoventidue
Ce fu ’n governo – ’n m’aricordo più
Ce fu ’na marcia – ’n m’aricordo dove
Che fu chiamata – ’n m’aricordo più.
E per vent’anni fummo sistemati
Da tante guère – ’n m’aricordo più
Però un ber giorno fummo liberati
Però da chi – num me lo ricordo più.


1 Madre Mary, attiva presso l'Ufficio informazioni vaticane e ospite di un convento nei pressi di via Veneto, pubblicò il suo diario subito dopo la guerra con un nom de plume (Jane Scrivener, Inside Rome With the Germans, Macmillan, New York, 1945). La vera identità della diarista - uno degli autori più attendibile tra quelli sopravvissuti l'occupazione - resterà un mistero per ben 36 anni, risolto solo dopo la sua morte. Ma le curiosità non sono finite: Il nome e il cognome di nascita di madre Mary, per una strana coincidenza accaduta a 60 anni dalla liberazione, ci riportano ancora una volta alla guerra in Iraq. Prima che diventasse suora, si chiamava infatti Jessica Lynch, proprio come la famosa soldatessa americana, anche lei prigioniera e liberata dai suoi connazionali..

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