Gli anni dell'ira:
Il caso Moro
e il terrorismo nascosto
Il 9 maggio di ventisei anni
fa venne ucciso dalle Brigate Rosse Aldo Moro, vittima di un’azione
terroristica assurda e di una reazione disastrosa del governo che portò
all’Italia “l’onore” di essere il primo paese
nel mondo ad adottare una linea di assoluta intransigenza. Soltanto
negli
anni successivi si scoprirà che per una parte del potere fu un
disastro voluto, frutto di una fermezza impiegata quale arma del terrorismo
di stato. E’ un episodio ormai passato alla storia, ma oggi tornato
attuale davanti alle pretese di un terrorismo globale. Per offrire un
punto di vista storico su questo fenomeno, presentiamo un brano –
la Prefazione integrale – del libro di inchiesta di Robert Katz,
I giorni dell’ira: il caso Moro senza censure. Scritto
subito dopo la tragica conclusione della vicenda Moro, la prima edizione
dell’opera originale uscì negli Stati Uniti nel 1980 col
titolo Days of Wrath: the Ordeal of Aldo Moro. La traduzione
italiana apparse quasi tre anni dopo, ma con documentazione e testimonianze
ancora inedite in Italia. Nel libro l’autore si chiede se la morte
dello statista potesse essere evitata senza compromettere le istituzioni.
La sua risposta, avvalorata da prove inoppugnabili, è positiva.
Soltanto l’intransigenza del governo, ispirata a calcoli politici,
ha impedito la liberazione di Moro. In che cosa consistevano questi
calcoli e come venivano imposti si è saputo nel ventennio successivi.
E’ un epilogo allucinante. Esaminiamolo qui su TheBoot.it nelle
prossime edizioni.
ldo
Moro venne rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978 nel corso di un'operazione
di guerriglia urbana. La mattina del 9 maggio venne ucciso mentre guardava
negli occhi due assassini dal sangue particolarmente freddo.
Nei cinquantaquattro giorni che trascorsero tra i due
avvenimenti egli venne annichilito da un gruppo di uomini di quello stesso
Palazzo di cui faceva parte.
Venne annichilito nel vero senso della parola, svuotato di ogni forza, ridotto a niente, e ciò anche per mano di un governo che era una sua creatura, di un partito politico da lui stesso presieduto, dalla prima maggioranza parlamentare in Europa occidentale comprendente un partito eurocomunista, da una massa di mezzi d'informazione che fecero scempio della verità in un clima di semicensura e, infine, da un consesso sorprendentemente acritico di esponenti dell'opinione pubblica mondiale i quali furono indotti a credere che il prezzo da pagare per la libertà del prigioniero fosse un qualche Grande Principio Democratico.
Non vi furono motivi personali per distruggere così Aldo Moro. Vi erano, sì, indicazioni che potevano far pensare che i suoi rapitori lo avrebbero costretto a «parlare». A prescindere dal timore che una simile ipotesi suscitava tra i suoi colleghi politici in un paese dove troppi scandali vengono lasciati impuniti, i servizi segreti di più di uno Stato membro della Nato erano preoccupati da ciò che avrebbe potuto rivelare un uomo che era stato cinque volte Presidente del Consiglio. Ma, più importante di qualsiasi altra considerazione, quale la salvaguardia di segreti nazionali o internazionali, che ispirava i tentativi di neutralizzare la minaccia rappresentata dalla cattura di Moro, si rivelò, durante quei cinquantaquattro giorni, proprio la stessa volontà dell'uomo più potente d'Italia di non accettare il ruolo di martire.
Coloro che ebbero influenza sulle decisioni, ivi comprese quelle
persone pubblicamente accusate dalla signora Moro di avere provocato con
atti di omissione la morte del marito, si comportarono certamente senza
malizia e nella maggior parte dei casi andarono contro i loro sentimenti
più profondi. L'annullamento di Aldo Moro, il suo abbandono fisico e morale
da parte di una società che volle togliergli la propria integrità, fu
il prodotto di una strana coincidenza di circostanze temporali e manovre
politiche. Dal momento in cui le Brigate Rosse misero le mani sull'uomo
che era Aldo Moro, egli cominciò a trasformarsi nella statua che sicuramente
un giorno sorgerà in una piazza romana a lui dedicata. Il potere di Moro,
per quanto formidabili fossero le forze che gli erano contrarie, non fu
facilmente debellato. Dalla sua cella in un'isolata e nascosta «prigione
del popolo», egli condusse una battaglia complessa, articolata ed intelligente
che aveva come obiettivo la propria saldezza. Riuscì ad avere dalla sua
parte in questa lotta non soltanto familiari ed amici riluttanti a seguire
la maggioranza (tra gli altri il Papa, due ex capi dello Stato ed il segretario
generale delle Nazioni Unite), ma anche, come vedremo, un settore delle
stesse Brigate Rosse.
Egli rifiutò il ruolo di martire affibbiategli dai colleghi
del Palazzo. Non vi sarebbe stata gloria alcuna nel sacrificarsi in nome
di quel coacervo di interessi individuali che caratterizzano la scena
politica romana. Era assai più dignitoso lottare bene per la propria salvezza
con quel suo metodo profondamente politico, e allorché capì che la partita
era perduta — in anticipo rispetto a quelli che lottavano al suo fianco
— maledisse coloro che ipocritamente piangevano la sua morte, non assolse
nessuno dalle proprie responsabilità e si accomiatò da tutti con semplicità.
Morì come un antieroe, come un eroe del suo tempo.
Questa è la storia della sua lotta e della sua morte. È
la storia — per quanto una serie di penose verità possano somigliare ad
una storia — di come un uomo di potere e la sua famiglia ebbero come
Il
Libro: I giorni dell'ira di Robert Katz, traduzione
di Giancarlo Riccio, Roma, ADN
Kronos Libri, 1982.
“Chiunque conosca e ami l’Italia, chiunque abbia meditato
sulla fragilità delle democrazie moderne e si commuova per
la pietà e il terrore che questa tragedia incute, vorrà
leggere questo libro originale e profondamente sentito.” –
Washington Post |
Il Film:
Il caso Moro, di Giuseppe Ferrara
con Gian Maria Volonté,
tratta da I giorni dell'ira, sceneggiatura di Robert Katz,
Armenia Balducci e Giuseppe Ferrara, 1986. |
Il
Libro sul caso del film: Il
caso Moro, di Balducci, Ferrara e Katz, Napoli, Pironti
Editore, 1987
E' la risposta degli autori alla controversia suscitata dal film. Contiene
documenti inediti, recensioni, e il testo completo della sceneggiatura.
|
antagonisti
la stessa coalizione politica che proprio quell'uomo aveva costituita
e di come reagirono. Ciò che era cominciato come un melodramma di proporzioni
grandiose — uno stupefacente colpo di mano in un'assolata strada romana
— divenne in virtù di un'amara ironia una vera e propria tragedia degna
della penna di un bardo.
Io non sono certo quel bardo, ma presi a interessarmi seriamente
al caso dopo aver notato ripetutamente che alcuni degli aspetti della
vicenda ai quali si è fatto cenno prima erano stati trascurati. Per di
più, allorché tutto fu finito, il consenso nei confronti di una strategia
inedita verso il terrorismo (pur se completamente errata) fu generale.
Così, quando il «Washington Post», ad esempio, lodando
implicitamente questa strategia scrisse che i rapitori di Moro lo avevano
deliberatamente «immerso sempre più profondamente in un abisso psicologico,
dando poi notizia di questo suo decadimento progressivo mediante la pubblicazione
delle sue lettere, sempre più affrante e disperate» divenne evidente quanto
il quotidiano americano fosse lontano dalla verità e con quanta abilità
a Roma si fosse riusciti a tenere celata questa stessa verità. Una grave
ingiustizia diventava un errore storico, a livello internazionale si stabiliva
un pericoloso precedente.
Ero a Roma durante i cinquantaquattro giorni del caso Moro.
Non che l'essere presenti ad un fatto garantisca imparzialità nel riferirne
o nel giudicarlo, anzi. La mia unica pretesa di obiettività risiede nel
fatto che guardavo gli avvenimenti da vicino ma, al tempo stesso, con
il distacco di uno straniero. Di solito mi occupo di avvenimenti storici
o fantastici. Il giorno in cui Moro fu rapito venni a conoscenza quasi
subito dell'avvenimento; mi recavo, come al solito, al mio studio in Trastevere
per lavorare ad una storia ambientata nella Roma del Cinquecento. La notizia
mi riportò bruscamente alla realtà. Ma allora vivevo in un diverso spazio
temporale e, dopo lo shock iniziale, fui contento di immergermi nuovamente
nel passato. Nel corso degli anni da me trascorsi in Italia avevo incontrato
Aldo Moro in due occasioni: in entrambe le circostanze si era rafforzata
in me l'impressione che egli fosse esattamente come lo aveva magistralmente
interpretato Gian Maria Volonté nel film Todo Modo. In quel film
il personaggio Moro, simbolo di una Democrazia Cristiana decadente, viene
eliminato alla fine dagli stessi corruttori del suo partito, e cioè dalla
CIA. Ero troppo immerso allora nel mio lavoro ambientato ai tempi della
Controriforma per riflettere sulle molte assonanze esistenti tra Todo
Modo e la realtà; e ciò forse anche perché queste assonanze trovavano
esatta eco nei miei pregiudizi. In realtà, al pari di Leonardo Sciasca,
autore di Todo Modo, dovevo ancora scoprire il vero Aldo Moro.
Mi resi conto, dapprima soltanto saltuariamente, che qualcosa
era cambiato a Roma: ogni volta cioè, che mi rituffavo nella realtà; ma,
quando le lettere di Aldo Moro cominciarono ad arrivare dalla «prigione
del popolo», mi accorsi dalle reazioni degli uomini del Palazzo che un
timore si era impossessato dell'Italia e che sarebbe potuto accadere qualcosa
di veramente grave.
In Italia non succede nulla che non sia in qualche modo
collegato alla volontà di questo o quel partito politico: quella volta
ci si trovò — e fui forse l'ultimo ad accorgermene — in un frangente di
fronte al quale tutte le principali forze politiche erano d'accordo. E
ciò era particolarmente vero per i due superpartiti: la Democrazia Cristiana
ed il più potente partito comunista dell'Occidente.
Il giorno in cui Moro venne rapito si doveva costituire
un nuovo governo con una maggioranza parlamentare senza precedenti per
ampiezza nella storia italiana del dopoguerra. Dopo trent'anni di ostracismo
i comunisti, notevolmente rafforzati dai più recenti risultati elettorali,
entravano a far parte di questa maggioranza, seppure in una posizione
di appoggio esterno. E questa svolta era il risultato della raffinata
strategia politica messa in atto da Moro. Egli in questo modo era divenuto
il bersaglio scelto dalle Brigate Rosse che sincronizzarono la complessa
operazione della sua cattura, in modo da farla scattare proprio in quella
ventina di minuti che gli occorrevano per andare dalla sua abitazione
a Montecitorio e dare la propria benedizione al nuovo governo.
I comunisti, che erano entrati a far parte della maggioranza
impegnandosi anche a difendere la democrazia, dovettero trovare ogni mezzo
per dissociarsi dall'altro comunismo, quello invocato dalle Brigate Rosse.
Essi ostentavano quasi il loro nuovo ruolo di ferrei difensori dello Stato,
delle sue istituzioni, dell'ordine, della legalità. I democristiani, a
prescindere dai sentimenti individuali nei confronti del loro leader sequestrato,
non potevano essere da meno, e così si scatenò una gara per dimostrare
chi era più intransigente.
In realtà quella posizione spieiata, intransigente, che
avrebbe prevalso sino a garantire (inevitabilmente, possiamo dire ora)
la morte di Moro, emerse quasi subito. Godendo dell'appoggio internazionale,
ed in particolare di quello statunitense e della Germania federale (per
motivi, come ebbi a scoprire più tardi, che nulla avevano a che fare con
l'Italia ed il caso specifico), essa lasciava scarso margine di possibilità.
Sin dall'inizio le posizioni furono chiare: o si era intransigenti, oppure
si era plagiati dalle Brigate Rosse. Fu bandita ogni critica alla linea
ufficiale ed Aldo Moro, il critico numero uno, fu addirittura fatto passare
per matto.
Giorgio Bocca, uno spirito indipendente, poco dopo la morte
di Moro, scrisse: «Il 16 marzo questa facciata [di una stampa libera]
è caduta e si è visto come funzionano i meccanismi dell'informazione:
i partiti padroni o protettori dei giornali e della TV decidono ed i direttori
eseguono. Ipocrisie, menzogne, esagerazioni, invenzioni fino a pochi giorni
prima considerate come inaccettabili, vengono passate in tipografia e
stampate senza il minimo accenno di protesta. I dissenzienti più che essere
emarginati si defilano, gli articolisti prima di essere censuratisi censurano.
La linea maggioritaria è, s'intende, quella che si ispira agli interessi
dei due grandi partiti di potere, la DC e il PCI... il tono generale era
pressappoco questo: "chi non è con noi è un mascalzone o un amico del
nemico"».
vevo
visto accadere cose simili in altri Paesi, in India e nel Bangladesh,
nell'Europa orientale e nel mio stesso paese, gli Stati Uniti, al tempo
della guerra nel Vietnam e durante gli anni cinquanta. Ma l'Italia dopo
Mussolini mi sembrava avesse perso il gusto dell'intolleranza. Il caso
attuale sembrava degno di attenzione perché per la prima volta, ma forse
non per l'ultima, il terrorismo politico, nella sua espressione moderna,
provocava una simile reazione. Penso, inoltre, che gli stranieri avvertano
prima e meglio, per ovvi motivi, i pericoli che corre la libertà nel Paese
che li ospita.
Ai primi di aprile ficcai le mie ricerche sul sedicesimo
secolo in uno scatolone di cartone e mi misi ad osservare con maggiore
attenzione ciò che stava succedendo. In quei giorni era difficile avere
altre notizie al di fuori di quelle che la stampa pubblicava; ora la stampa,
come del resto l'atmosfera in generale, era proprio come Bocca l'ha descritta.
Vi era comunque l'area della controinformazione. Essa era alimentata dalla
famiglia Moro che aveva necessità di comunicare ciò che la stampa rifiutava
di pubblicare. Più ci si avvicinava al momento culminante della vicenda
e più accessibile e migliore diventava tale controinformazione. Parlerò
di tutto ciò al momento opportuno, ma soltanto quando si arrivò all'orribile
finale, se non addirittura settimane dopo, allorché le tensioni, anche
per coloro che più da vicino ebbero a soffrire dalla vicenda, cominciarono
a calmarsi, fui in grado di distinguere veramente tra verità e fantasia.
Il mio compito fu reso più semplice per più motivi. Il
primo fu il pentimento. Furono in molti ad essere improvvisamente presi
dal rimorso per aver mantenuto una linea intransigente: alcuni di loro
erano ora disposti a parlare. Non dissimile fu lo stato d'animo della
stampa; quasi a far ammenda del proprio passato atteggiamento, molti giornali
assegnarono ai loro migliori redattori il compito di ricostruire con imparzialità
la storia di quei cinquantaquattro giorni.
Il secondo motivo va identificato nel pur lieve spostamento
dell'asse politico verificatosi in seguito alle elezioni amministrative
del maggio '78. Esso ebbe come conseguenza un inasprimento delle tensioni
negli ambienti politici; trascurabile di per sé, provocò, per una sua
logica interna, un flusso continuo di notizie su quasi tutti i documenti
sul caso Moro sino ad allora rimasti inediti.
La mia posizione personale, infine, era in qualche modo
privilegiata. Nel corso degli anni mi ero creato a Roma le mie fonti d'informazione,
cosa del resto normale per uno scrittore del mio genere; più interessante
era comunque il fatto che molte delle mie fonti fossero allora, e siano
tuttora, in contatto con i protagonisti del caso Moro. Anzi, un ristretto
numero di esse erano loro stesse protagoniste della vicenda. Di conseguenza
ebbi occasione di prendere visione di molto materiale inedito e come si
vedrà, di conoscere individui facenti parte di ambienti quasi ermetici.
Con ciò non voglio dire che il lettore si troverà in mano
l'opera definitiva sul caso Moro: purtroppo passerà ancora del tempo prima
di avere un libro simile. Molti ambienti, alcuni ristretti, altri addirittura
ristrettissimi, restano chiusi.
Quest'opera intende essere uno sforzo iniziale per la revisione
di alcuni dati ed informazioni che a suo tempo erano stati manipolati,
che hanno esercitato un peso notevole sugli eventi, e che ancora oggi
attendono di essere rivisti. Non è detto che ad errori passati io non
riesca ad aggiungerne di nuovi, ma la mia opera si basa esclusivamente
su fatti noti e su altri fatti da me appresi nel corso della mia ricerca.
Nulla ho concesso alla mia immaginazione, ne ho dato credito alla fantasia
altrui.
Al di là delle mie intenzioni, anch'io sono obbligato alla
discrezione. Il caso Moro scotta. Sono ancora in ballo le fortune di molte
persone, mentre non si sono ancora rimarginate tante ferite, sia spirituali
che fisiche. Vi sono questioni di vita e di morte ancora aperte, nel senso
più letterale dell'espressione. Il lettore si tranquillizzi, però: niente
di ciò che mi è precluso di rendere pubblico altererebbe sostanzialmente
questa mia inchiesta. Allo stesso lettore chiedo venia per tutte le occasioni
in cui non sarò in grado di soddisfare la sua naturale curiosità riguardo
ad alcuni dettagli intimi: motivi di prudenza, richiesta di anonimato
e, soprattutto, un doveroso rispetto della riservatezza che la famiglia
Moro si è autoimposta legittimano la mia richiesta. Per quanto riguarda
le mie fonti, ho indicato la provenienza delle mie informazioni così come
si fa generalmente ed entro i limiti cui ho fatto cenno sopra.
Quello che segue è il racconto di una Confusione universale
che alla vittima, come ad altri, parve di proporzioni babeliche.
Robert Katz
Roma, 16 marzo 1979
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